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Claudia Pandolfi e Alessandro Preziosi raccontano la schizofrenia
È la morte di un vecchio genitore a scoperchiare questioni mai risolte e a rimettere in discussione i legami familiari e inter-generazionali. È questo il focus di “Mio fratello, mia sorella“, film diretto da Roberto Capucci e interpretato da Alessandro Preziosi e Claudia Pandolfi che riaccende i riflettori del grande schermo sulla schizofrenia e sul mondo dei caregiver che gravita intorno ai pazienti. “In questo film – ha commentato il Presidente della Società Italiana di Psichiatria Massimo Di Giannantonio – la persona con psicosi schizofrenica viene mostrata nella sua interezza, senza pregiudizi e dietrologie, e con la consapevolezza che questo disturbo oggi può avere una prognosi migliore rispetto al passato, grazie ai progressi della ricerca che garantiscono un miglioramento sostanziale della qualità di vita dei pazienti. Il lavoro fatto dal regista e dagli attori sotto la supervisione della Società Italiana di Psichiatria contribuisce a far comprendere al grande pubblico la complessità e la sofferenza di questo grave disturbo”.
Claudia Pandolfi infatti veste i panni di Tesla, figlia di Giulio che morendo regala ai suoi cari un’opportunità di vita. Al centro del film infatti ci sono Nìkola e Tesla, interpretati rispettivamente da Preziosi e Pandolfi, che non si frequentano da diversi anni. Alla morte del vecchio genitore, i due fratelli si ritrovano dapprima in Chiesa e dopo al cospetto del notaio per aprire il testamento. Dalle ultime volontà emerge che entrambi dovranno vivere nella casa già abitata da Tesla e dai figli Carolina e Sebastiano, un adolescente schizofrenico appassionato di musica e di violoncello. Nel testamento Giulio ha offerto loro due alternative: vendere la casa e dividersi il ricavato, o viverci insieme per un anno e decidere poi che cosa farne. Tesla non può vendere subito e accetta, nel frattempo tra Nìkola e Sebastiano nasce un legame straordinario.
La schizofrenia si presenta nella forma di un grave disturbo psicotico: le persone che ne sono affette si mostrano del tutto impermeabili a quello che accade, hanno reazioni fuori dal comune e per niente coerenti rispetto agli eventi. A causa della sua caratteristica destrutturante della personalità, questa patologia condiziona gravemente tutti gli aspetti della vita del soggetto, sconvolgendo la sua rete relazionale e coinvolgendo anche il nucleo familiare.
Secondo dati forniti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), sarebbero circa 24 milioni le persone che nel mondo soffrono di schizofrenia a un qualunque livello. La malattia si manifesta in percentuali simili negli uomini e nelle donne, anzi in questo caso si osserva la tendenza a sviluppare la malattia in età più avanzata. Nel nostro Paese invece si contano circa 245 mila persone a cui è stato diagnosticato questo disturbo. Coloro che si ammalano appartengono a tutte le classi sociali. Non si tratta, pertanto, di un disturbo causato dall’emarginazione o dal disagio sociale. Come emerge dall’analisi eseguita dall’Istituto Superiore di Sanità, nella maggior parte dei casi i primi sintomi sono difficili da distinguere rispetto a una comune crisi adolescenziale. In più, le persone affette non hanno la consapevolezza di essere effettivamente malate: per loro, la realtà in cui vivono è molto più certa di quella in cui sono immersi i loro simili. Il trattamento della schizofrenia ha tre componenti principali: terapie farmacologiche, psicoterapie individuali e di gruppo e interventi di riabilitazione per aiutare i pazienti a recuperare le capacità sociali perse durante la malattia. Secondo l’Oms, circa un terzo dei pazienti affetti da schizofrenia possono riprendersi completamente. Un altro 30% deve continuare la terapia e comunque ha una riduzione del funzionamento sociale, mentre nel restante dei casi la patologia cronicizza.