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Maternità, perché il rooming in ha riacceso il dibattito sulla violenza ostetrica?
L’atto di massima potenza del corpo femminile. Ma è realmente così? Per una pura casualità, nelle ultime settimane il dibattito pubblico nazionale è stato caratterizzato dal tema della maternità e, riducendo il focus al dettaglio, al momento esplicito (e carnale) del parto. Tutto ha preso volume sotto i riflettori sfavillanti del teatro Ariston di Sanremo con il monologo su una maternità mai arrivata di Chiara Francini. Di lì a poco però la questione è diventata decisamente virale: a gennaio, immediatamente dopo l’Epifania, all’ospedale “Sandro Pertini” di Roma una donna, che aveva partorito da poche ore, si è risvegliata nel letto di ospedale con il suo bambino, appena nato, senza vita. “Colpa del “rooming in”!”, hanno sentenziato sui social. Non si tratta di una tecnica di “violenza ostetrica” – altra espressione sfoderata nell’ambito dell’acceso dibattito – ma della possibilità di tenere nella propria stanza il bambino dopo il parto, giorno e notte, senza limiti di orario. L’espressione anglossassone riconduce effettivamente a una pratica moderna, ma in verità affonda le radici in tempi remoti ed è stata riscoperta negli ultimi decenni.
La sintesi? Una grande, nonché immotivata confusione. Procediamo per ordine. La Magistratura ha aperto un’inchiesta sui fatti del “Pertini” di Roma per individuare eventuali responsabili o per accertarne la fatalità. Il rooming in consiste nella possibilità per la mamma di tenere il bimbo vicino a sé e occuparsene sin dopo il parto, aiutata del personale sanitario e dalle ostetriche. La tecnica è raccomandata da Unicef ed Oms come buona pratica per assicurare una forte ed efficace creazione del legame madre bambino e per sviluppare un efficace allattamento al seno. Per questa ragione, ad oggi sono molte le strutture ospedaliere pubbliche e private che consentono alla coppia madre bambino di restare insieme da subito, in alcuni casi alla coppia può affiancarsi anche il papà.
Viene da sé dunque la mancata correlazione con la violenza ostetrica, che rappresenta un sistema di pratiche lesive della libertà e della dignità della donna partoriente, ma anche un problema culturale fatto di scorrette abitudini che si ripetono in ambito ospedaliero per mano degli operatori socio-sanitari. La violenza ostetrica ha da poco anche il sostegno di una pagina Instagram #Ancheame che raccoglie la testimonianza di donne-madri, con un seguito di oltre 11 mila follower. Si tratta, c’è scritto in didascalia, “di un manifesto e di una proposta di legge contro la violenza ostetrica”, che denuncia la sistematicità di trattamenti irrispettosi e abusivi. “In quanto cittadine, attiviste, giornaliste, avvocate, comunicatrici, mediche e madri – si legge – abbiamo scelto di intraprendere un’azione concreta e collettiva per decostruire l’attuale narrazione della maternità sacrale e perfomativa e contribuire attivamente a creare una nuova cultura della genitorialità, della cura e della salute ginecologica e riproduttiva. Lo scopo è quello di creare occasioni online e offline di discussione, di indagine, studio del fenomeno ed educazione con il fine ultimo di presentare una proposta di legge volta a regolamentare gli ambienti dedicati alla maternità, alla genitorialità e alla salute intima, e la formazione del personale adibito secondo criteri specifici che non lascino margine di libera interpretazione”.