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Più vita sana e minor privacy. Grazie a un’App potremmo avere sconti sulla copertura sanitaria, ma a che prezzo?
Il mondo è cambiato radicalmente negli ultimi anni; la tecnologia si evolve con velocità esponenziale, dando possibilità a chiunque di utilizzare strumenti tecnologicamente avanzatissimi tutti i giorni per compiere le azioni più banali, modificando abitudini, stili e qualità di vita.
Generazioni tra loro anche molto distanti, sono ormai abituate a scegliere dove andare a mangiare consultando TripAdvisor, prenotare gli alberghi su Booking o appartamenti su AirBnB; usano quotidianamente social network per sentire amici o colleghi, cercare lavoro o trovare l’anima gemella e soprattutto si sono abituati a condividere ogni tipo di informazione.
Il passo cruciale della rivoluzione digitale passa obbligatoriamente attraverso la possibilità di condividere quello che vogliamo con chi vogliamo: una nuova libertà di espressione e di parola, che ha permesso nel tempo una diversificazione delle fonti di acquisizione delle informazioni, di qualunque genere esse siano, personali, confidenziali o anagrafiche, infatti è spesso l’utente a fornirle spontaneamente attraverso i nuovi media.
Lo sanno bene Facebook e Google, che raccolgono praticamente lo scibile di ognuno di noi per creare target di possibili clienti ai quali veicolare informazioni pubblicitarie, ma lo sanno bene anche i giornalisti che ormai sono consci della capillarizzazione e immediatezza dell’informazione, si pensi a YouReport dove fonti e destinatari si confondono tra loro, scambiandosi all’uopo i ruoli. In questo contesto si sta evolvendo anche l’accesso all’informazione più privata, quella relativa alla salute personale.
Società come RunTastic hanno sfruttato la necessità degli utenti di archiviare informazioni sulle proprie attività fisiche, combinando alcuni sport tradizionali con applicazioni dedicate, attraverso il social networking e l’utilizzo dei cosiddetti “serious games”, ovvero di giochi che abbiano, oltre all’intrattenimento, una finalità formativa o educativa.
Si fondono in questo modo diverse necessità: non solo il risultato sportivo e non solo il benessere fisico, ma soprattutto la volontà di monitorare le proprie informazioni, i propri tempi o le calorie bruciate e seguire chi fa meglio o peggio di noi, condividere opinioni, metodiche di allenamento o diete ed avere tutto a portata di mano.
Il trend che si sta sviluppando in questo ambito è di fornire al consumatore nuovi device che registrino le attività svolte con funzioni sempre maggiori e diverse, dal semplice contapassi alla regolamentazione del sonno, fino a stati di allerta per prevenire possibili malattie: strumenti iper-tecnologici che rispondano anche alle esigenze di stile perché, condicio sine qua non, è che siano indossabili, “wearable technologies”, ovvero occhiali, clip, reggiseni, guanti, ma soprattutto i più comodi braccialetti: sono Up di Jawbone, GearFit di Samsung, The Band di Microsoft, Flex di FitBit e tanti altri, in attesa che gli smart-watches, guidati da Apple, prendano il sopravvento.
Di strumenti e App per monitorare che tipo di vita facciano i propri utilizzatori, in sostanza, ce ne sono a iosa e ce ne saranno almeno il doppio secondo le stime degli esperti che vedono il settore in forte crescita, tanto che sono al vaglio altri ed ulteriori utilizzi che possano andare a soddisfare bisogni finora esclusi dal campo tecnologico, quali, per citare un esempio di estrema attualità, le assicurazioni sanitarie.
La pratica ha diviso l’opinione pubblica, tra chi accetterebbe volentieri polizze “meritocratiche” a discapito dell’ esser controllati dalle compagnie assicurative e chi le reputa discriminatorie, andandosi a configurare, di fatto, una clientela di serie A e di serie B.
In Italia, a seguire le orme statunitensi ci sarebbe il Gruppo Generali, ma le associazioni di consumatori, nello specifico Adusbef e Federconsumatori, si sono opposte “ritenendo illecito introdurre in Italia l’intrusivo sistema americano di controllo sulla salute degli assicurati” un sistema considerato “a punti”, inoltre sono d’accordo nel considerare pericolosa l’archiviazione e schedatura da parte delle compagnie assicurative di una “massa di dati sensibili e inviolabili”.
D’altra parte il sistema assicurativo, a differenza di quello mutualistico, proprio di MBA, non è nuovo ad una differenziazione dei premi assicurativi ed i calcoli attuariali vengono aggiornati costantemente in funzione della situazione di rischio, inoltre una meritocrazia simile viene, di fatto, già utilizzata nelle assicurazioni di Responsabilità Civile con la differenziazione in classi.
La differenza è forse da individuarsi nella sensibilità dei dati raccolti, attinenti alla sfera più intima di ognuno di noi, dati che come dimostrano le applicazioni e strumenti tecnologici prima menzionati, vengono volentieri condivisi, ma si badi bene, vengono condivisi quando apportano un beneficio o una gratificazione a chi li condivide (una corsa, una gita in bici, una sessione di allenamento andata a buon fine), ma chi condividerebbe uno stato depressivo sfociato in un’obesità, chi andrebbe ad aggiungere un malus assicurativo ad una non buona condizione di salute? Forse bisognerebbe ragionare anche su questo aspetto, in un mondo che ci ha abituati a mostrare (leggasi condividere) solo il buono di noi, come gestire l’altra parte della medaglia, quella che non appare sovente sui media?
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