Il rapporto genitore/figli, il vincolo morale e sentimentale e un unico grande punto interrogativo: vivere o morire? Analizza questa tematica “È andato tutto bene”, l’ultima fatica cinematografica del regista francese François Ozon nata sulla base dell’omonimo romanzo di Emmanuèle Bernheim e presentata al grande pubblico in concorso al 74esimo Festival di Cannes.
“Figlia mia, voglio che mi aiuti a farla finita”. Ozon racconta la storia di André, interpretato dall’attore André Dussollier, anziano signore che dopo essere stato colpito da un ictus, viene ricoverato. Sua figlia Emmanuèle, i cui panni sono vestiti dalla straordinaria Sophie Maceau, scrittrice affermata, saputa la notizia, arriva in ospedale e trova il genitore quasi paralizzato, immobile sul letto della clinica. L’uomo ha condotto una vita stravagante, ha capito di essere attratto dagli uomini e ha sempre dimostrato un grande amore verso la vita. Ma ora André implora sua figlia di aiutarlo a farla finita. La donna si ritrova così in una situazione difficile.
Squisitamente attuale e utile ad alimentare il dibattito pubblico sul tema del fine vita, il film tratta dell’amore di un figlio per il proprio genitore ma anche di uno smisurato attaccamento alla vita. Tuttavia tra i desiderata personali e la gravità di una malattia c’è l’iter burocratico e la mancanza di una legislazione in tutti i Paesi. Per questa ragione Emmanuèle, insieme all’altra sorella, si immerge in un percorso di ricerca, analisi e studio delle strutture che potrebbero accogliere il padre. Il peso sulle spalle di Emmanuèle è enorme, e quando si propone la possibilità di un ricovero in Svizzera, grazie al tramite di un’associazione apparentemente fidata, serviranno mesi per riuscirci e tutto dovrà esser concluso in gran segreto per evitare problemi con la giustizia francese. Dal film alla realtà.
Come aveva scritto nel suo testamento Marina Ripa di Meana, in Italia si ritiene che per “lasciarsi andare” bisogna necessariamente affidarsi a una clinica svizzera. In verità così non è. Se da un lato in Europa c’è la Svizzera, che ha legalizzato il suicidio assistito da non pochi anni, dall’altro ci sono paesi dove l’eutanasia è ammessa da poco tempo: i Paesi del Benelux e, dalla scorsa estate, anche la Spagna.
Il caso italiano. Poco prima delle festività natalizie, era il 13 dicembre scorso, a Montecitorio si è tenuta la discussione generale sul fine vita. Le votazioni sono rinviate ai prossimi mesi, non prima di febbraio secondo fonti parlamentari. Tuttavia il destino della riforma appare a rischio soprattutto al Senato. Ma di cosa si tratta? La legge 219 del 2017 ha introdotto il testamento biologico o «disposizioni anticipate di trattamento»: un documento in cui, in previsione di una «futura incapacità di autodeterminarsi», si possono esprimere le proprie volontà sui trattamenti sanitari e rifiutarne alcuni. La stessa legge inoltre consente al medico, previo consenso del paziente, di ricorrere alla «sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore» per prognosi di morte a breve termine. Sul suicidio assistito è intervenuta la Corte costituzionale, a seguito della vicenda di Fabiano Antoniani (dj Fabo). La Corte si è pronunciata escludendo la punibilità di chi “aiuta” il compimento del suicidio, a patto che vengano rispettate determinate condizioni per evitare i rischi di abuso. Occorre, in particolare, che il proposito di suicidio sia libero e autonomo; che la persona che lo ha formulato abbia una patologia irreversibile fonte di sofferenze intollerabili, venga tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e sia in grado di prendere decisioni libere e consapevoli.