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L’amore genera dipendenza come una droga: lo studio di due scienziate sulla fine delle storie di coppia
“Credo di pensare all’amore più di quanto in realtà si dovrebbe. Resto sempre sbalordita dal potere che ha di alterare e di finire la nostra vita”.
Almeno una volta nella vita si dovrebbe prestare attenzione al monologo iniziale di “The Holiday” film del 2006 diretto da Nancy Meyers e interpretato da Cameron Diaz e Kate Winslet con le controparti maschili Jude Law e Jack Black. È proprio Iris Simpkins, una giornalista che dopo tre anni di relazione è ancora innamorata del suo collega di lavoro Jasper Bloom, nonostante l’infedeltà di lui, a pronunciare queste parole che bene inquadrano il mal d’amore e le conseguenze che esso genera all’organismo.
Solo chi ha realmente sofferto per amore conosce il dolore che si prova in quei momenti. Si tratta di una sofferenza che coinvolge tutta la persona, dal corpo allo spirito, che impedisce di pensare, di mangiare, di vivere la vita come di fatto si dovrebbe. Proprio sulle pene d’amore, le stesse narrate nel film campione di incassi, è tornata la scienza indagando gli effetti – quelli negativi – causati all’organismo quando finisce una storia. Diversi studi hanno infatti portato alla luce una serie di meccanismi che scaturiscono quando la vita amorosa di una persona va a rotoli. A quanto pare il grande dolore provocato da una separazione amorosa nasce nelle maglie più remote del cervello e per molti scienziati potrebbe risalire alle dinamiche ataviche alla base dell’evoluzione della specie umana.
Un amore finito induce a mettersi in discussione totalmente: non importa se fino a quel momento ci si è sentiti la persona più sicura del mondo o se nessuno mai è riuscito a scalfire le certezze di sempre. Una volta soli ci si sente persi e poco contano le parole di amici, familiari ed estranei che cercano di rimediare con frasi del tipo “Tutto passa” o ancora “Ne troverai tanti altri, vedrai”. Ansie, dubbi, crisi di panico sono all’ordine del giorno fino a restare coinvolti in una depressione che potrebbe condizionare seriamente il normale scorrimento delle giornate, anche sul posto di lavoro. In effetti, il mutamento netto della quotidianità nella maggior parte dei casi causa un vero e proprio terremoto nella mente della persona addolorata ed è a questo punto che il cervello comincia ad elaborare. Lo sostengono due scienziate americane, l’antropologa e psicologa Helen Fisher e la neuroscienziata Lucy Brown dopo aver studiato un gruppo di 15 volontari di circa 20 anni di età, tutti reduci dalla fine di un rapporto sentimentale durato non meno di un anno e mezzo.
Le ricerche condotte dalle due scienziate hanno dimostrato una maggiore attività nella VTA, l’area tegmentale ventrale, un’area del cervello nella quale sono presenti le emozioni dell’innamoramento e del piacere sessuale, ma anche responsabili del senso di soddisfazione che si prova quando si placa la fame, la sete o ancora quando si diventa dipendenti da droghe. La VTA presiede anche alla funzione “di ricompensa” che rilascia dopamina e genera quindi un senso di benessere. La tesi di Fisher dunque è che all’origine dell'”amore” ci sia un senso di “profonda dipendenza” evidenziata dall’attività di queste regioni cerebrali.
L’amore innescherebbe meccanismi simili a quelli di una droga e questo spiegherebbe perché è così difficile da controllare e perché generi un senso di frustrazione così intenso quando il rapporto si interrompe improvvisamente soprattutto nei casi in cui non c’è una vera causa che ha condotto le due persone a una rottura definitiva.