Quante volte leggiamo articoli su temi di scienza, medicina e società che fanno riferimento a “recenti studi”, citati come verità assolute?
Tutti diamo un po’ per scontato che, se una ricerca è pubblicata, quanto scritto deve essere vero (almeno fino alla successiva smentita tramite, ovviamente, un altro studio pubblicato).
In realtà sono anni che la comunità accademica si interroga sull’insidia più temuta: la frode scientifica. Per frode scientifica si intende “la fabbricazione, la falsificazione e l’occultamento dei dati; l’inappropriata manipolazione di dati o immagini; il plagio; l’informazione fuorviante; la pubblicazione ridondante; la paternità inattendibile delle pubblicazioni, quali guest e ‘ghost autorship’; la mancata divulgazione di fonti di finanziamento o di conflitti di interesse; la falsa dichiarazione del coinvolgimento del finanziatore e la non eticità della ricerca (ossia il mancato ottenimento del consenso informato da parte del paziente)”, come spiegato in un articolo comparso nel 2012 su Salute Internazionale che riportava gli esiti del primo convegno sul tema organizzato congiuntamente dal British Medical Journal e dal COPE, Commettee for Ethical Publications.
Alcune case editrici di settore hanno tradotto questa definizione in una serie di parametri esattamente misurabili; ciascuna casa editrice rende noti al pubblico e utilizza i propri criteri. Di fatto ci si fida del maggiore o minore prestigio di questa o quella rivista. Oltre alla mancanza di univocità dei criteri di valutazione, l’esattezza dei numeri non sempre corrisponde alla correttezza di quanto messo in evidenza dai ricercatori, soprattutto in determinati ambiti di ricerca. Al contrario, quantificare dal punto di vista matematico metodi, criteri e concetti di studio rischia di far perdere di vista il quadro generale, con il risultato che possono passare per inconfutabili lavori che altro non sono che vere e proprie bufale, realizzati in buona fede o meno.
È questo ciò che si è riproposto di dimostrare un trio di accademici e professionisti statunitensi: James Lindsay, fisico-matematico autore di diversi libri e pubblicazioni scientifiche, Peter Boghossian, professore di filosofia presso l’università di Portland, e Helen Pluckrose, top editor del sito AreoMagazine.com, che ha poi rivelato l’intera storia. I tre, nell’arco di diversi anni, sono riusciti a scrivere e far pubblicare su svariate riviste specialistiche del settore psico-sociologico anche di prestigio una serie di articoli completamente falsi e assurdi sin dagli argomenti, usando pseudonimi inventati e citando fonti inesistenti. Addirittura in un caso hanno ottenuto un riconoscimento importante: per un articolo che, partendo da studi inesistenti sul comportamento dei cani nei parchi pubblici cittadini, suggeriva che educare gli uomini usando le tecniche più brutali di addestramento per i cani possa ridurre il rischio di aggressione e violenza sessuale verso le donne. Il loro scopo dichiarato era, da un lato, quello di dimostrare obiettive carenze del sistema di controllo e verifica adottato dalla maggioranza delle riviste del settore, dovuto in parte anche a normative di riservatezza sui dati originali utilizzati nelle ricerche quando si tratta di argomenti delicati, che impediscono valutazioni inter pares esaustive. Dall’altro, intendevano evidenziare come l’approccio politicamente corretto ad argomenti considerati rilevanti e per certi versi scottanti, come gender, razzismo, sessualità, possa portare a estremi di ottusità incentrata su slogan e affermazioni generalizzate accettate a prescindere, senza capacità o volontà di approfondire, anche a fronte di tesi ridicole o nomi di autori e titoli accademici falsi facilmente verificabili. In parallelo avvertivano come, sebbene il settore della ricerca psico-sociologica sia più esposto di altri, il problema della veridicità delle ricerche e della congruenza delle conclusioni possa essere esteso a tutti gli ambiti scientifici.
Ovviamente le reazioni iniziali allo “scherzo” sono state di sdegno con accuse di mancanza di integrità ai tre ricercatori. Successivamente il mondo accademico ha iniziato a interrogarsi su come evitare il ripetersi di tali situazioni soprattutto nel mondo attuale nei quali social e strumenti di comunicazione riprendono e amplificano a oltranza qualunque notizia e informazione. Di certo al momento sembrerebbe proprio confermato il controverso studio dei ricercatori dell’università del Michigan, secondo il quale è possibile creare algoritmi in grado di rilevare le “fake news” meglio di quanto non siano in grado di fare gli esseri umani.