Sul Morbo di Alzheimer la ricerca va avanti.
Sono circa 600mila gli italiani che soffrono di Alzheimer, una malattia degenerativa che colpisce le cellule cerebrali, caratterizzata da un progressivo deterioramento delle funzioni cognitive, dovuta in parte dalla deposizione extracellulare della proteina β-amiloide, che ostacola la funzionalità delle cellule nervose. Tale riduzione funzionale è inizialmente circoscritta a specifiche aree cerebrali e si propaga successivamente in base alle connessioni funzionali.
Ad oggi non esistono trattamenti per fermare la progressione della malattia. Negli ultimi anni, la ricerca sulla demenza ha fornito una comprensione molto più approfondita del modo in cui il morbo di Alzheimer colpisce il cervello. Un recente studio italiano pubblicato sulla prestigiosa rivista “Scientific Reports” punta l’attenzione sul ruolo svolto dalla microglia nelle fasi precoci della malattia di Alzheimer. Il gruppo di ricerca del Dott. Nicola Origlia, dell’istituto di Neuroscienze del CNR di Pisa, ha cercato di chiarire alcuni aspetti cellulari e molecolari coinvolti nello sviluppo e nella progressione della neurodegenerazione tipica della malattia di Alzheimer.
Utilizzando un modello animale di AD, basato sulla espressione delle mutazioni del gene della APP che provocano la patologia umana, si è riusciti a stabilire un esatto ordine gerarchico e cronologico del coinvolgimento di diverse aree nel fenomeni degenerativi associati alla presenza di β-amiloide. Si è riusciti inoltre a capire che l’aumento della sostanza beta- amiloide induce l’attivazione del recettore RAGE espresso dalle cellule immunitarie residenti del cervello, ovvero le cellule microgliali, innescando un processo infiammatorio responsabile del peggioramento della funzionalità neuronale.
I risultati ottenuti hanno dimostrato che l’inibizione del recettore RAGE è efficace nel prevenire sia la degenerazione delle sinapsi nella corteccia entorinale che le alterazioni della memoria associativa presenti già ad uno stadio precoce di neurodegenerazione. Lo studio rappresenta un ulteriore tentativo di comprendere la biologia dell’invecchiamento e dei fenomeni degenerativi, e potrà contribuire alla identificazione di specifici bersagli molecolari su cui agire.
La lotta contro il morbo arriva anche da Losanna. Il laboratorio del Policlinico Federale di Losanna (EPFL) ha infatti, sviluppato un trattamento che fa ben sperare per una futura terapia.
Si tratta di un impianto, una capsula lunga 27 mm, 12 di larghezza e 1,2 di spessore impiantata nel tessuto sottocutaneo che può utilizzare il sistema immunitario e indirizzarlo contro la malattia di Alzheimer.
La capsula bioetica contiene delle cellule geneticamente modificate così da produrre anticorpi contro le beta amiloidi, fornendone al cervello un flusso costante. Il dispositivo è stato testato con un successo “totale” sui topi. Si è partiti da una delle probabili cause dell’ Alzheimer, che è la formazione di ammassi di proteina beta-amiloide in diverse zone del cervello. Nel comunicato del Policlinico è stato spiegato che “il fenomeno provoca successivamente la formazione di placche, tossiche per i neuroni. Un mezzo per combattere le placche consiste nel ‘marcare’ le A-beta con anticorpi che allertano il sistema immunitario del paziente, affinché intervenga per distruggerle ed eliminarle. Questo risultato è ottenuto con iniezioni ripetute di vaccino, suscettibili tuttavia di provocare effetti secondari”.
La capsula bioattiva sviluppata a Losanna contiene quindi delle cellule geneticamente modificate per la produzione di anticorpi contro le A-beta. Inserito sotto la pelle, l’impianto diffonde un flusso regolare di anticorpi nella circolazione sanguigna. Tutti i materiali utilizzati sono biocompatibili e la membrana della capsula impedisce al sistema immunitario di identificare e attaccare le cellule.
E’ molto importante la scelta delle cellule che non solo devono essere in grado di produrre anticorpi, ma devono anche essere compatibili con il paziente, in modo da non innescare una reazione immunitaria contro di esse.
A differenza dei trattamenti tradizionali, che richiedono ripetute iniezioni di vaccino che possono causare effetti indesiderati, il trattamento sviluppato dagli esperti dell’Epfl sembra sicuro e, se usato fin dalle fasi iniziali della malattia, estremamente efficace.
La ricerca sta proseguendo il suo percorso e questo fa sperare che si sta avvicinando a una soluzione concreta per curare l’Alzheimer.