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Popolo sardo: longevo grazie al buon vino dalle origini millenarie
In Italia quando ci si sofferma sull’estate e sulle vacanze non si può non parlare della Sardegna, terra dal mare cristallino e della longevità che secondo molti avrebbe ancora tanto da condividere con la penisola italiana e con il mondo intero. Per molto tempo infatti, tra gli anni ’90 e i primi 2000, la terra dal clima mite e della origini antiche è stata rappresentata come il massimo palcoscenico della bella vita mondana trascurando il carattere primordiale e terapeutico dei terreni accarezzati e scaldati per tutto l’anno dai venti marini.
Uno dei sapori più spiccati di questa terra è proprio il vino di una qualità altissima, tra i più rinomati del Belpaese. La coltivazione della vite per vinificazione affonda le radici nell’età del bronzo, come riportato da alcuni resti di vitis vinifera compatibili con l’età nuragica, oltre 3000 anni fa, e non si è mai interrotta: a qualsiasi anziano venga chiesto di svelare l’elisir di lunga vita, la risposta è sempre unanime: traballu e una tass’e binu, traducibile in “lavoro e bevo un bicchiere di vino”. Non è un caso che la Sardegna vanti una tradizione vitivinicola millenaria e tutt’oggi la viticoltura rappresenta la principale coltura arborea isolana. Ancora non si sa effettivamente chi abbia curato le prime viti: secondo alcuni i Fenici, per altri sono stati i Cartaginesi o addirittura gli antichi romani. Fatto sta che ad oggi il vino sardo è parte del cartello commerciale dell’isola.
Tra i vitigni più coltivati ci sono il Cannonau, caratterizzato dalla bacca nera dell’isola, il Vermentino prevalentemente di Gallura (unico in Sardegna ad avere ricevuto la denominazione di origine controllata e garantita), il profumatissimo rubino Carignano del Sulcis, la Vernaccia – molto aromatica, fra il giallo e l’ambrato, coltivata perlopiù nell’Oristanese già in epoca fenicia – e i vini più dolci come il Moscato, tipico del Campidano, e la Malvasia, prodotta prevalentemente a Bosa e a Settimo San Pietro.
Anche la birra ha la sua storia. Essa, come il vino, ha origini confuse. Alcuni storici sostengono che sia prodotta entro i confini dell’isola fin dal Neolitico. Se ne producono circa 65 litri all’anno contro i 30 della Penisola italiana. La più famosa oltre i confini isolani è l’Ichnusa (antico nome dell’isola e logo coi 4 mori), prodotta a qualche chilometro da Cagliari dal 1912, ma numerosi sono anche i birrifici artigianali che si stanno affacciando nel panorama nazionale e internazionale.
La maggior parte di questi propone stili belgi, inglesi e americani, con malti e luppoli importati o coltivati nell’isola, ma c’è chi ha osato di più: è il Birrificio Barley che ha dato vita al nuovissimo stile IGA, Italian Grape Ale, in cui birra e vino convivono in un connubio perfetto.
Non meno importanti sono poi i vini da dessert. Il mirto, tanto diffuso e peculiare da avere ottenuto, nel ’98, la denominazione ufficiale di Mirto di Sardegna. È un liquore popolare (difficile trovare famiglie che non lo producano in casa) ottenuto dall’infusione di bacche di mirto rosso nell’alcool: il sapore è quello delle passeggiate sulle alture a ridosso delle coste, dove la brezza mescola gli aromi della macchia mediterranea al profumo di salsedine e di mare. E l’Abba ardente (acqua ardente) o fil’e ferru, il più noto dei distillati sardi, trasparente e brillante, ottenuto da vinacce selezionate. Il nome significa fil di ferro e racconta il luogo, nella vigna, sotto il quale veniva nascosto quando ancora era illegale: fin dall’antichità si può trovare nelle varianti aromatizzate al miele, al finocchietto selvatico o al mirto, il non plus ultra della sardità.