La scienza non ha dubbi: vivere in città influisce non solo sulla diffusione del diabete, ma anche sulla prevenzione, sul benessere e sul controllo della malattia.
A ribadirlo è uno studio del Censis, condotto all’interno del programma internazionale Cities Changing Diabetes, che ha approfondito tutti gli aspetti culturali e sociali, dall’istruzione al reddito, dal luogo di residenza alla cultura del cibo, per studiare la diversa vulnerabilità al diabete dei cittadini romani.
Dire Roma oggi corrisponde a parlare di una delle grandi capitali europee caratterizzate (a volta anche indebolite) da fenomeni di massa contemporanei: dai flussi migratori alla freneticità del quotidiano.
Tuttavia, che la condizioni sociale e antropologica condizionino la sfera della salute e del benessere umano è fuori discussione, quello che invece bisognerebbe distinguere sono i residenti e i loro diversi modi di vivere la salute, e con essa la patologia. “Salutisti da contesto”, “anziani medicalizzati”, “cittadini fatalisti”, “giovani preoccupati ma indisciplinati”. Sono queste le quattro “tribù” di persone con diabete tipo 2, che percepiscono e vivono la malattia in maniera diversa nell’area metropolitana di Roma, individuate dall’analisi qualitativa condotta dal Censis, all’interno del programma internazionale Cities Changing Diabetes.
Tra chi vive generalmente fuori Roma sono stati individuati i “salutisti da contesto”, così definiti perché accomunati dal desiderio di custodire e costruire uno stile di vita sano che essi stessi collegano alle caratteristiche del luogo di vita. Le persone presenti nel gruppo si spostano quasi sempre a piedi per raggiungere i luoghi che frequentano abitualmente e sono maniaci nell’alimentazione. Ne consegue un costante monitoraggio del proprio stato di salute e dunque un livello diabetico perennemente sotto controllo. Se da una parte ci sono i “salutisti”, dall’altra ci sono i soggetti appartenenti all’altro gruppo di residenti fuori Roma, “gli anziani medicalizzati”, che sono caratterizzati da un’età più avanzata.
Questi si muovono prevalentemente in automobile e danno valore agli aspetti culturali tradizionali del cibo. Esprimono una grande fiducia nei confronti del medico e della terapia farmacologica, dettaglio che ha contribuito alla scelta del nome, ma la frequenza al Centro di diabetologia è la meno assidua tra tutti e quattro i gruppi, tanto che il 41,7 per cento si reca al Centro diabetologico una volta l’anno o meno.
Gli appartenenti a entrambi i gruppi hanno mediamente un livello di istruzione medio-basso e dichiarano di essere ben informati sulla loro malattia.
Gli altri due gruppi poi vivono in prevalenza a Roma città; “i cittadini fatalisti”, denominati così perché convinti che avere il diabete non dipenda da loro e non credono che adottare uno stile di vita sano possa fare la differenza e “i giovani preoccupati ma indisciplinati”, caratterizzati dalla giovane età e dal fatto di dichiararsi preoccupati e condizionati dalla malattia.
Gli appartenenti a entrambi i gruppi si muovono prevalentemente in macchina e non sono sempre attenti all’alimentazione, ma oltre il 70 per cento de “i cittadini fatalisti” si reca al Centro di diabetologia una volta ogni 3-6 mesi e oltre il 62 per cento de “i giovani preoccupati ma indisciplinati” ogni 3 mesi. Questo dato lascia pensare che la differenza di frequenza sia frutto anche della facilità di accesso ai servizi, in quanto residenti nella città di Roma.
In media, inoltre, presentano un grado di istruzione medio-alto e un diabete nella norma.
“Le caratteristiche dei gruppi emerse dallo studio mettono in luce la rilevanza delle dimensioni sociali e culturali e il modo in cui esse influenzano il vissuto di malattia e l’esperienza del diabete dei pazienti che vivono nei vari territori dell’area metropolitana di Roma”, ha affermato Ketty Vaccaro, responsabile Area Salute e welfare Fondazione Censis e coordinatore di Roma Cities Changing Diabetes.
“Uno dei risultati più importanti attiene al peso del luogo di vita rispetto alle possibilità di gestione della malattia: insieme ai fattori sociali e psicologici, sono emersi ostacoli alla prevenzione, al benessere e al controllo della malattia legati alla dimensione urbana e al contesto di vita, che hanno bisogno di essere necessariamente affrontati con politiche multidimensionali e non solo sanitarie”, ha poi concluso.