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Tumori, le novità della ricerca sostenuta da Airc
Sono tante le ricerche portate avanti dai nostri ricercatori e sostenute dall’Airc (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro).
Sul fronte dei tumori la ricerca va avanti, con grandi progressi. Sono tante le ricerche portate avanti anche dai nostri ricercatori e sostenute dall’Airc (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro). Un recentissimo studio, realizzato da un team di ricercatori italiani e tedeschi, sotto la guida di Ildiko Szabo, del dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, ha individuato una nuova strategia per colpire il cancro, che sfrutta una proteina della membrana mitocondriale e permette di preservare le cellule sane, uccidendo solo quelle malate. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Cancer Cell.
“Da circa dieci anni studiamo i mitocondri e in particolare una proteina, la Kv1.3, che si trova nella loro membrana”, ha spiegato Szabo. “La proteina forma un canale ionico, vale a dire una porta di accesso posta sulla membrana interna del mitocondrio, che permette il passaggio degli ioni potassio. Nel tempo abbiamo scoperto che questa proteina è più espressa in cellule tumorali di vario tipo rispetto alle cellule sane”. È stato così deciso di utilizzarla come bersaglio per una nuova generazione di farmaci. I ricercatori hanno predisposto un composto capace di inibire l’azione dei canali Kv1.3, innescando così una serie di eventi che portano alla morte delle cellule patologiche.
I risultati fanno per il momento ben sperare: il composto infatti riesce a indurre nelle cellule tumorali un forte stress ossidativo e la produzione di radicali liberi che le portano alla morte. Si è dimostrato invece innocuo per le cellule sane, grazie alla minore presenza di canali Kv1.3 e ad una migliore capacità di rispondere allo stress ossidativo.
Nei test effettuati in cellule isolate, il nuovo composto ha ucciso il 98 per cento delle cellule leucemiche, mentre negli esperimenti condotti in animali di laboratorio con melanoma o tumore del pancreas, si è osservata la riduzione delle dimensioni del tumore del 90 per cento nel primo caso e del 60 nel secondo.
“Sono risultati molto incoraggianti”, hanno commentato i ricercatori, “ma c’è ancora molto da fare. Intanto cercheremo di indagare se l’approccio è efficace anche in altri tipi di tumore. Poi abbiamo intenzione di ottimizzare il trattamento sperando di ottenere risultati ancora migliori. Infine vorremmo capire se questa strategia è efficace contro le cellule staminali tumorali che costituiscono il serbatoio del cancro”.
Una seconda recente ricerca, i cui risultati sono stati pubblicati sul Journal of Clinical Oncology, ha identificato nuove caratteristiche genetiche in grado di definire con ancora maggiore precisione il rischio di sviluppare tumori negli uomini portatori di mutazioni in BRCA1 e 2.
La presenza di mutazioni a carico dei geni BRCA1 e BRCA2 è una spia importante di un aumentato rischio di sviluppare il cancro alla mammella, sia nelle donne che negli uomini. Per ora, solo le donne con queste caratteristiche genetiche sono indirizzate verso percorsi di prevenzione e trattamento su misura.
“Sappiamo da anni che le mutazioni a carico dei geni BRCA 1 e 2 aumentano il rischio di sviluppare alcuni tipi di tumore”, ha spiegato Laura Ottini, del dipartimento di medicina molecolare dell’Università di Roma, coordinatrice dello studio. “Tuttavia fino a oggi non siamo stati in grado di spiegare perché alcuni portatori di mutazioni sviluppano il tumore, mentre altri non lo fanno. Di certo giocano un ruolo importante fattori ambientali; ma questi non bastano. Abbiamo quindi cercato altri fattori genetici che potessero far variare il rischio di tumore nei portatori di mutazioni”.
La ricerca è stata realizzata nell’ambito del consorzio internazionale CIMBA (Consortium of Investigators of Modifiers of BRCA1/2); i ricercatori hanno analizzato il DNA di 1.800 uomini con mutazioni in BRCA 1 e 2. E hanno poi fatto un confronto tra le caratteristiche genetiche di quelli che non si sono ammalati e quelle di chi ha invece sviluppato un tumore alla mammella o alla prostata: anche questo è infatti influenzato dai geni BRCA1 e 2.
“Alla fine ci siamo concentrati su 88 varianti genetiche (o polimorfismi) significative per il cancro alla mammella e su 103 per quello alla prostata scoprendo che quanto maggiore è il numero di varianti di cui si è portatori tanto più alto è il rischio di sviluppare il tumore”, ha detto la dott.ssa Ottini.
Per i portatori di mutazioni a carico di BRCA2 (più frequenti negli uomini) le probabilità di sviluppare un tumore alla prostata variano dal 19 per cento di chi ha un ridotto numero di polimorfismi al 61 per cento di chi ne ha il massimo numero; nel caso del cancro alla mammella il rischio va dal 5 al 14 per cento.
“Si tratta di informazioni che possono essere impiegate fin da subito in clinica e rivelarsi molto utili per indirizzare ogni paziente verso il percorso più adatto secondo il proprio profilo di rischio”, ha aggiunto la ricercatrice.
Un altro studio importantissimo ha dimostrato come il segreto delle cellule tumorali, capaci di replicarsi all’infinito, vada cercato anche nei lisosomi, organelli che funzionano da ‘termovalorizzatori’ cellulari, registi di un sistema anti-spreco che quando va in tilt può accendere la miccia del cancro.
La ricerca è stata realizzata da un team guidato da Andrea Ballabio, direttore del Tigem-Istituto Telethon di genetica e medicina di Napoli e professore ordinario di genetica medica all’università Federico II di Napoli, in collaborazione con colleghi dell’Ieo-Istituto europeo di oncologia di Milano. Lo studio è stato pubblicato su ‘Science’ e finanziato, oltre che dall’Airc, anche da Fondazione Telethon.
“È una storia che parte da lontano – ha spiegato Ballabio – e in particolare dal nostro storico interesse per i lisosomi che sono coinvolti in un ampio gruppo di malattie genetiche rare, quelle da accumulo lisosomiale. In queste gravi patologie, a causa di un difetto genetico i lisosomi non svolgono a dovere il loro compito, ovvero quello di neutralizzare le sostanze di scarto grazie al loro ampio corredo di enzimi”. Queste sostanze si accumulano così nelle cellule e le danneggiano in maniera irrepatabile. “Studiando il funzionamento dei lisosomi, abbiamo però scoperto che non sono dei semplici spazzini, ma dei fini regolatori del nostro metabolismo”, ha sottolineato Ballabio.
Nel 2009, lo stesso team di ricerca aveva parlato di un gene chiamato Tfeb, capace di regolare da solo l’attività di molti altri geni coinvolti sia nella produzione sia nel funzionamento dei lisosomi. “Ci siamo resi conto da subito di essere di fronte a un meccanismo di pulizia delle nostre cellule assolutamente nuovo e finemente regolato, potenzialmente sfruttabile per evitare l’accumulo di sostanze tossiche tipico di svariate malattie degenerative, di origine genetica, ma non solo”, ha sottolineato Ballabio.
Anche gli studi successivi avevano confermato che i lisosomi agiscono come veri e propri termovalorizzatori, “degradando le molecole già utilizzate e ormai inutili per ricavarne energia. Questo è particolarmente utile in assenza di nutrienti e nella risposta all’esercizio fisico prolungato, quando cioè ci sono poche risorse a disposizione e l’organismo sfrutta le proprie riserve endogene di energia. In presenza di cibo, invece, questa via metabolica viene normalmente silenziata”.
Secondo l’ultima ricerca, se questo meccanismo si rompe può causare la crescita tumorale. È stato infatti dimostrato come “diversi tipi di cellule tumorali (melanoma, tumore del rene e del pancreas) siano in grado di replicarsi in modo indiscriminato proprio perché questo sistema di regolazione anti-spreco è sempre attivo”. Non solo: “Studi preliminari dimostrano che l’inibizione di questo meccanismo blocca la crescita tumorale, suggerendo quindi una nuova strategia per la terapia dei tumori”.