L’Iphone è diventato una parte del corpo e farsi selfie, diremmo noi, è comunemente ritenuta un’operazione del tutto biologica più che abitudinaria.
Selfie, si gira. Ormai non possiamo più farne a meno, come recita una canzone tormentone dell’estate 2016 l’Iphone è diventato una parte del corpo e farsi selfie, diremmo noi, è comunemente ritenuta un’operazione del tutto biologica più che abitudinaria. Se, tuttavia, inizialmente la pratica digitale di fotografare se stessi con uno sfondo interessante destava divertimento, allegria e curiosità, oggi invece non è proprio così dato che da due Regioni del mondo arrivano notizie allarmanti a tal proposito.
Sei indiani, di età compresa tra i 18 e i 20 anni, fino a qualche giorno fa sono stati tenuti in osservazione nei due principali ospedali del Paese perché affetti da gravi disturbi psichiatrici legati a un uso compulsivo e inappropriato del proprio telefono cellulare, fenomeno definito dagli esperti nei termini di un ‘selficidio’.
Partendo dal caso di una ragazza affetta da una malformazione al naso, il quotidiano Mail Today ha preso talmente a cuore la vicenda che ha voluto dedicare alla selfie-dipendenza in India la sua prima pagina precisando che tre pazienti sono in cura nello stesso Aiims e altri tre sono stati ricoverati nel Sir Ganga Ram Hospital. Lo psichiatra Nand Kumar dell’Aiims ha dichiarato al giornale che i tre pazienti presi in cura “sentivano il bisogno impellente di mettersi in posa davanti allo smartphone” e per questo “avevano sviluppato una patologia conosciuta come ‘disordine dismorfico del corpo’ (continuo pensiero ad un proprio difetto fisico) che li ha portati ad un disordine compulsivo ossessivo”.
Sempre sul Mail Today, inoltre, si legge che i sintomi di questo disordine sono così sottili che molti di coloro che usano continuamente il cellulare per ritrarsi in ‘selfie’ non si rendono conto del perché poi si sentano depressi e disorientati. Secondo l’Associazione psicologica americana (Apa), circa il 60% delle donne che soffrono di questa patologia ossessiva non ne sarebbero a conoscenza. Il termine “selfie” è stato coniato con ogni probabilità nel 2002 dall’ABC australiana per essere poi ufficializzato nell’agosto del 2013 dall’Oxford English Dictionary. In circa 17 anni di vita l’autoscatto digitale non solo ha cambiato abitudini ma ha reso l’uomo più attento all’arte della fotografia ma molto meno interessato a guardare la propria vita, con tutto quel bagaglio di esperienze e avventure, con i propri occhi generalmente sostituiti dagli effetti che filtrano la realtà per postarla poi sulle piattaforme networks.
La seconda notizia riguardante i selfie arriva da Israele dove l’artista Shahak Shapira attraverso una mostra fotografica ha gridato la sua indignazione verso tutti coloro che si recano sui luoghi della Shoah, dai campi di concentramento di Auschwitz-Birkenau fino ai diversi ghetti dove negli anni ’30 e ’40 del ‘900 furono relegati con la forza gli ebrei, come turisti senza rinunciare ad autoscatti da postare sistematicamente sui propri social. A causa di questa stramba abitudine tutt’altro che culturale, l’artista ventottenne ha realizzato un progetto provocatorio montando gli scatti di oggi con delle immagini provenienti dai campi di sterminio nazisti. “Yolocaust”, questo il nome dell’esposizione (che comprende l’acronimo YOLO: You Only Live Once), parte dai selfie scattati al Memoriale dell’Olocausto di Berlino, meta quotidiana di circa diecimila visitatori e oggetto di scatti del tutto irrispettosi che non tengono conto della sacralità del luogo.
Sul sito di Yolocaust si legge una breve presentazione del progetto che ha destato molto interesse non solo in Israele ma anche in Europa e negli Stati Uniti per la straordinarietà dell’intuizione. “Persone che saltano, vanno sulla tavola da skate o addirittura in bici nella struttura – si legge sulla homepage – all’interno della quale si trovano le 2711 stele che ricordano i sei milioni di ebrei sterminati”. “Nessun evento nella storia dell’uomo – prosegue – può essere paragonato all’Olocausto”. Da qui, l’invito a comportarsi in maniera consona, in un luogo che ricordano lo sterminio messo in atto dai nazisti. Le immagini fotoshoppate – combinate con quelle dei cadaveri – sono state pubblicate senza il consenso dei relativi protagonisti ma, ad oggi, solo una persona ne ha chiesto la rimozione, dichiarandosi pentita del suo comportamento. “Ho ricevuto molti commenti positivi – ha inoltre commentato l’autore intervistato dal giornale Haaretz – anche da parte di chi lavora allo Yad Vashem e persino da alcuni insegnanti, che mi hanno chiesto di poter usare il mio progetto per le loro lezioni”.